giovedì 30 aprile 2015

Xylella fastidiosa: batterio killer degli olivi

Non esiste una cura per le piante attaccate dal killer che arriva dal Centro America. Ciò che si deve fare rischia di mettere in ginocchio la produzione di olio in Italia, ma a rischio è l'intera zona degli olivi del Mediterraneo. Ecco che cosa è e che cosa fa la Xylella.
La sputacchina (Philaenus spumarius) è uno dei vettori identificati dell'infezione di Xylella.
Migliaia di ulivi eradicati o tagliati e ridotti a tronchi morti. È questo il triste scenario che si prospetta nel Salento, in Puglia, dove un batterio, la Xylella fastidiosa, ha colpito le coltivazioni di olivi. La Xylella, batterio della famiglia delle Xanthomonadaceae, si caratterizza per l'elevata variabilità genetica e fenotipica (ossia l'insieme delle sue caratteristiche osservabili). Se ne conoscono al momento quattro sottospecie che infettano circa 150 diverse piante: la fastidiosa colpisce olivi, viti e aceri; la sandyi punta all'oleandro; la multiplex predilige il pesco, l'olmo, il susino; la pauca preferisce le piante di agrumi e di caffè.

Il meccanismo di attacco è però è simile per tutte le varietà del batterio: si moltiplica nei vasi conduttori dello xilema delle piante ospiti: ostruisce i vasi che trasportano acqua e nutrienti dalle radici al fusto e fino alle foglie, creando una sorta di gel che impedisce il regolare flusso del fluido. Le piante infette così si seccano completamente.
 

Struttura di un albero: 1) midollo, 2) anelli di crescita, 3) xilema o legno, 4) cambio, 5) floema, 6) corteccia. Lo xilema è l'insieme dei tessuti vegetali adibiti al trasporto dal basso verso l'alto di acqua e nutrienti. | WIKIMEDIA COMMONS/UVAINIO

COME AVVIENE IL CONTAGIO?
Il batterio non è sporigeno ma si trasmette attraverso insetti vettori, in particolare quelli della famiglia delle Cicadellidae, che si nutrono succhiando dai vasi linfatici delle piante grazie a un apparato boccale. Nutrendosi da una pianta infetta trasmettono poi il batterio a una pianta sana. L'equipe del dottor Donato Boscia del CNR di Bari (Istituto per la protezione sostenibile delle piante) ha scoperto che nel caso specifico della Xylella che ha colpito gli olivi pugliesi, l'insetto vettore è la Philaenus spumarius, nota come sputacchina.

DA DOVE ARRIVA?
Studiando il DNA del batterio, confrontandolo con una banca dati internazionale, Boscia ha concluso che la Xylella presente in Puglia è uguale a quella in Costa Rica. Un viaggio davvero lungo, se si pensa che l'insetto vettore al massimo vola per un centinaio di metri o poco più, sfruttando i venti.
 

Ingrandimento (8kx) della sezione di un olivo infetto, dov'è evidente la colonizzazione da parte della Xylella fastidiosa.

PERCIÒ NON È STATA LA SPUTACCHINA?
L'insetto è un vettore, non è l'origine. «L'ipotesi più probabile è che la Xylella sia arrivata con una pianta già infetta», spiega Boscia. Alcuni indizi danno credito a questa spiegazione: a Gallipoli, dove nel 2010 si è verificato il primo focolaio del batterio, c'è un grande vivaio che importa molte piante dall'estero, in particolare dall'Olanda; in Olanda l'analisi del Dna di una pianta di caffè malata ha ricondotto a un ceppo endemico del Costa Rica; infine, il Paese del Centro America è un grande esportatore di piante ornamentali (come l'oleandro): 43 milioni nel solo 2012. Ulteriori indagini hanno poi permesso di datare l'infezione (il primo caso nel 2010) e il "paziente zero", un oleandro di provenienza olandese e origine costaricana.

C'È UNA CURA?


Boscia non è ottimista: «Nonostante si conosca il batterio da oltre un secolo, a oggi ancora non esiste una terapia per curare le piante malate. Quelle infette sono perse». Una soluzione però c'è. «Non potendo agire sul batterio si deve agire sul vettore, sugli insetti che lo diffondono, ad esempio con un trattamento insetticida e tagliando spesso l'erba, per eliminare le larve e gli insetti ancora giovani.» Purtroppo è necessario anche un altro intervento: «Occorre ridurre il serbatoio del batterio, e per questo l'unico strumento è l'abbattimento delle piante infette». Qui sotto, in un video di Coldiretti strategie e profilassi per contenere la Xylella fastidiosa.
 


MILIONI DI DANNI... È "EMERGENZA"?
Con oltre 377.000 ettari di terreno coltivati a olivi, la Puglia è la prima regione olivicola in termini di superficie, con una produzione di oltre 11 milioni di quintali di olive all'anno. A tutt'oggi le stime a campione sulle piante malate non riescono a chiarire l'entità del problema: «I casi positivi riscontrati durante i controlli», spiega Pantaleo Piccinno, presidente di Coldiretti Lecce, «sono il 10% delle piante monitorate. Quindi possiamo stimare, forse anche per difetto, che su tutti gli ulivi pugliesi, quelli malati sono un milione». L'abbattimento comporterà comunque un ulteriore calo della produzione di olio, dopo la pessima stagione estiva del 2014, che ha già fatto segnare un calo del 35%. Tuttavia questo è solamente un tassello di un problema più ampio, che riguarda tutte le regioni del Mediterraneo coltivate a olivi, dalla Spagna alla Grecia e per l'Unione Europea siamo quantomeno in "stato di allarme".
 





Articolo de www.focus.it

mercoledì 29 aprile 2015

La mano dell'uomo

 

Questo è il nostro pianeta, così è come l’abbiamo ridotto. Nessuna di queste tragedie ha implicazioni naturali, sono tutte causa dell’inquinamento, voluto dall’uomo.
Animali che non hanno più la loro casa, morenti o sofferenti a causa della grande e piccola incuria, dallo sfruttamento petrolifero fino al semplice gesto di lasciare i rifiuti sulla spiaggia. 
Bambini che nuotano o che si nutrono della sporcizia nei paesi in via di sviluppo, che evidentemente conviene a tutti far rimanere tali. 
Siamo colpevoli, nessuno escluso, perché è troppo facile puntare il dito contro le grandi industrie e poi, nel quotidiano, comportarsi in maniera incivile.

Quelli che vedete sono i disastrosi effetti dei piccoli e grandi gesti di autodistruzione, sono il motivo per il quale dovremmo farci tutti un esame di coscienza e ripartire, da oggi, a vivere più responsabilmente.








Articolo de www. 

martedì 28 aprile 2015

Non tutti sanno...galgo.guard.life

Pochi conoscono cosa si cela a due passi dal nostro paese...quali riti e tradizioni dietro alla caccia alla lepre
Per i galgos la vita è, se possibile, ancora più dura I galgos sono i bellissimi e dolcissimi levrieri spagnoli: un po’ più piccoli e leggeri dei greyhounds, anche loro velocissimi ed utilizzati per la caccia alla lepre.
Anche questi per gli spagnoli non sono cani, ma macchine utilizzate per divertimento.
Gli orrori sulla sorte di questi disgraziati sono molteplici: gettati vivi nei pozzi, impiccati, trascinati dalle auto, abbandonati nelle campagne con le zampe appositamente rotte a così via; parliamo di centinaia e centinaia di cani, non di qualche caso isolato!
Nelle regioni più arretrate – Estremadura, Castiglia, La Mancha – in nome delle tradizioni e della Vergine Maria, alla fine della stagione di caccia il cacciatore “doc” (galguero) deve eliminare il più perfidamente possibile il galgo che non lo ha ingrassato a sufficienza acchiappando lepri o che ormai è troppo vecchio.   Si sorvola sulle condizioni in cui vengono tenuti questi cani.
Naturalmente zero controllo nascite, zero vaccinazioni ecc.
Si pensa che almeno 20000 cani ogni hanno vengano sacrificati, ma potrebbero essere molti di più, non sono cani registrati e vengono fatti riprodurre a dismisura.
Fortunatamente molte associazioni in Europa, ed una anche in Italia, si occupano di salvarne quanti più possibile trovando loro famiglie adottive e di divulgare questi orrori, promuovendo petizioni ed iniziative di protesta e sensibilizzazione.
Purtroppo ci sono molti ed ingenti interessi economici attorno a queste situazioni.
 

lunedì 27 aprile 2015

Acqua, bene non di tutti

Di acqua dolce c'è abbondante disponibilità nel mondo eppure 1,1 miliardi di persone non vi hanno accesso. E' un problema di governabilità, dice l'Onu.


Oggi, nel pianeta, 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, mentre per 2,6 miliardi di persone mancano i servizi sanitari di base. Otto milioni di persone l'anno muoiono a causa della mancanza d’acqua e delle malattie legate alla mancanza di servizi igienico-sanitari (3.900 bambini al giorno) e secondo le stime dell'Onu nel 2030 fino a tre miliardi di persone potrebbero rimanere senz'acqua.

Queste cifre, che è bene ricordare nella Giornata mondiale dell'acqua che dal 1992 si celebra ogni 22 marzo, non sono il frutto di una mancanza della risorsa. Il totale dell’acqua dolce disponibile per gli ecosistemi e per gli uomini è di 200.000 km3 d’acqua, che corrisponde all’1% di tutte le risorse d’acqua dolce e solo lo 0,01 di tutta l’acqua della terra. Ma questo 0,01 % sarebbe sufficiente per le esigenze di tutte le popolazioni. Si legge infatti nel rapporto sullo sviluppo umano 2006 del Programma ONU per lo Sviluppo, intitolato “Al di là della scarsità: il potere, la povertà e la crisi idrica globale”: “Il problema con cui ci confrontiamo è soprattutto un problema di governabilità: come condividere l’acqua in modo equo assicurando la sostenibilità degli ecosistemi”.

Nell’Africa sahariana, oltre il 42% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile e solo il 36% dispone di un gabinetto. La situazione più drammatica riguarda le campagne: niente pozzi né installazioni idriche; niente fonti idriche né cisterne per raccogliere l’acqua piovana. L'italia per l'Africa.

Solo poco più di un terzo della popolazione dell’Asia meridionale – secondo dati UNICEF - ha accesso ai servizi sanitari. Oltre la metà della popolazione priva di servizi igienici vive in Cina e in India, determinando un ambiente inquinato da rifiuti organici. Un'altra minaccia per i bambini della regione è rappresentata dalla qualità dell'acqua; pericolose sostanze, come l’arsenico e il fluoro, contaminano le falde acquifere, mettendo a serio rischio la salute di 50 milioni di persone.

In Europa centrale e orientale, le riserve idriche stanno diminuendo come conseguenza dei cambiamenti ambientali, e i sistemi idrici nazionali incontrano grandi difficoltà nel far fronte alla situazione. Inoltre, i gravi squilibri nell'accesso all'acqua e la mancanza di una cooperazione regionale per la gestione delle risorse idriche esistenti, lasciano i bambini più poveri esclusi dai servizi più elementari. Si tratta di Paesi come Azerbaijan, Tagikistan, Macedonia, Turchia, Uzbekistan, Turkmenistan, Polonia, in cui gran parte della popolazione beve e usa l'acqua di pozzi contaminati dai vicini scarichi fognari. Basti pensare che la difficoltà di accesso all'acqua in Europa è causa, ogni anno, della morte di circa 13.500 bambini al di sotto dei 14 anni: di questi, 11 mila sono concentrati nell'Europa centrale e orientale.

In America Latina sussistono enormi disuguaglianze nei servizi idrici e igienico-sanitari sia all'interno che tra i vari Paesi. I bambini delle zone rurali vivono una situazione peggiore rispetto a quelli delle città, e in tutta la regione povertà ed esclusione sociale fanno sì che gruppi indigeni e minoranze si vedano ampiamente negato il diritto a tali servizi.
Se per un cittadino del Nord America o dell’Unione europea, ci sono oltre diecimila metri cubici annui di acqua potabile, per uno del Madagascar (uno dei paesi africani in condizioni migliori) si scende a 3.500, in Giordania a 260, molto meno di un litro al giorno. A questo si aggiunge che nel Medio Oriente, ed in particolare in Turchia, Siria, Isarele, Palestina ed Iraq, il possesso e il controllo dell’acqua rivestono purtroppo, ormai, un valore strategico.

Si tratta, quindi, di un problema da gestire attraverso la politica, che richiede interventi non più rinviabili della comunità internazionale, in termini di investimenti adeguati e di controlli, se è vero – è il rapporto del 2006 dell’ONU ad affermarlo - che la prima causa della scarsità d’acqua è da imputare a “mala gestione, corruzione, mancanza di istruzioni appropriate, inerzia burocratica e scarsi investimenti per costruire competenze umane ed infrastrutture”.   
A Nairobi, in Kenya, i poveri pagano un litro d’acqua dieci volte di più di quanto la pagano i ricchi che vivono nella stessa città. Non avere accesso ai servizi igienico-sanitari in baraccopoli come Libera, nei sobborghi della capitale del Kenya, significa che la gente defeca in buste di plastica e poi le getta dentro fogne a cielo aperto nelle strade, perché non ha altra scelta. Le famiglie più povere del Salvador, del Nicaragua e della Giamaica, spendono in media più del 10% del loro reddito per l’acqua. A Manila, nelle Filippine, l’acqua costa 2,5 volte in più che a New York, ad Accra, in Ghana, quasi tre volte, a Barranquilla, in Colombia, oltre cinque volte.
Nelle aree sottosviluppate, i poveri bevono acqua non potabile - e quindi si registra un’incidenza di malattie molto grave – perché non esistono le strutture adeguate per ottenere acqua pulita, che a loro costa più soldi rispetto agli abitanti dei paesi ricchi.

Esiste, quindi, un solido legame tra sottosviluppo e mancanza della risorsa idrica ed è questo rapporto che occorre rompere. Come ha ricordato in un recente convegno il vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: “I poveri del mondo soffrono spesso non tanto per la scarsità di acqua in sé, quanto per l’impossibilità economica di accedervi”.

L’”affare” intorno all’acqua rappresenta un giro economico grande, molto grande. Ma non è la questione del business – pur importante - quella principale. Nella Caritas in Veritate, Benedetto XVI scrive: “Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni”. Per garantire quest’obiettivo, occorre che ai Paesi poveri siano trasferite le tecnologie e le risorse economiche perché - attraverso gli investimenti necessari - si dotino delle infrastrutture indispensabili per accedere alla risorsa acqua. Solo così, si potrà considerare il bene acqua equivalente ad un diritto fondamentale. 









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